venerdì 13 gennaio 2017

UNA PAGINA DI CRONACA


Le notti in discoteca per "sballarsi", i cocktail colorati e dai nomi che fanno "tendenza", e poi le ragazze, i soldi per il motorino, il casco da sostituire con quello nuovo e all'ultima moda, le partite alla playstation.
Sembrerebbe il mondo di un diciassettenne qualunque, fatto di compiti lasciati in bianco e pagelle piene di brutti voti, se non fosse che è in questo mondo che affiora ed ha origine una storia che proprio in questi giorni dalle pagine di cronaca ci ha colpito profondamente.
Ancora una storia di sangue, verrebbe da dire, ancora una storia drammatica.
Mi riferisco a quella dei due genitori del Ravennate uccisi e trovati morti nella loro abitazione a colpi d'ascia. Uccisi dal figlio e da un suo amico, poi si saprà, a cui il giovane (sì perchè di un giovane di soli diciassette anni si tratta) aveva promesso la cifra di mille euro per ricompensarlo dell'aiuto prestato.
Una storia che fa riflettere, e che fa venire i brividi.
Due genitori uccisi in casa propria, nel loro letto, tra le cose di sempre di una quotidianità costruita giorno per giorno, uccisi da quello stesso figlio a cui avevano dato la vita.
Mi chiedo cosa spinga un giovane, figlio di una società del benessere qual è la nostra, a compiere un gesto tanto grave, cosa ci sia (o meglio cosa non ci sia) da spingerlo fino a questo.
I continui rimproveri per un andamento scolastico negativo?
Le reiterate disapprovazioni dei suoi comportamenti e la mancata accettazione del suo stile di vita?
Cosa c'è di tanto grave nel modus operandi dei genitori da generare, avallare o determinare una simile azione?
Cosa c’è che non funziona, quale mancanza, quale “vuoto” ha da colmare una realtà avvertita come “minacciosa”, come “limitante”, una realtà in cui dovrebbe definirsi una identità in “essere”, che cerca attorno a sé dei modelli e non li trova?
A pensarci, non c'è neanche un termine preciso per indicare tale tipo di omicidio.
Si parla di “femminicidio”, “patricidio”, “matricidio”, “parricidio”, ma non c'è un termine unico (almeno credo) per indicare "uccisione dei genitori".
Nella letteratura greca Edipo uccide il padre senza sapere di farlo, e Cesare è ucciso da Bruto in quel che è passato alla storia come "Cesaricidio", secondo la tradizione, a causa di motivi politici e sociali.
Neanche la letteratura è riuscita a concepire un orizzonte ontologico di riferimento nel quale "autorizzare", “giustificare”, o “sancire” nei confini angusti della comprensione umana e del diritto, un gesto che va contro ogni etica ed ogni comprensione o significato.  
E così Edipo è diventato metafora dell'uomo solo e sofferente, l’eroe infelice che per sfuggire al proprio destino finisce inconsapevolmente per andargli incontro, egli è colpevole senza saperlo, senza volerlo, egli è colui che pensa di essere “uno”, e si ritrova ad essere “un altro”, lui così saggio, così sapiente, da non saper vedere ciò che era sotto i suoi stessi occhi. Come Cesare, quelle lontane idi di marzo del 44 a.C., di fronte ai tirannicidi ed a Bruto fra tutti, lui così forte, così potente, che non può non compiere un ultimo gesto di pietá, di dolore e di amore, quello di un padre, (magari in aggiunta storiografica seriore), che per non vedere il figlio armato si copre la faccia con la toga rossa, e pronuncia le ultime parole (vere o meno) “kai su téknon”… in latino ”quoque tu fili mi”- anche tu figlio mio, che esprimono tutta la tragicità del gesto, la “drammaticità” di un padre colpito a morte.
Mi chiedo cosa spinga un giovane di diciassette anni, in una famiglia come ce ne sono tante, in un mondo pieno di possibilità, a fare quello che ha fatto.
Quali valori stiamo dando ai nostri figli, quali valori stiamo lasciando ai nostri giovani?
Quale mondo stiamo costruendo, in una società piena di tutto, una società del progresso, del benessere, una società civile?
Forse è il momento non solo di condannare, ma di riflettere, non di condannare senza capire, ma di cercare di capire, di vedere oltre quella realtà che stiamo costruendo ed in cui spesso, purtroppo, non ci riconosciamo. Interrogarci, e fermarci un po’ tutti a pensare…

“È il momento disperato in cui si scopre
che questo impero che ci era sembrato la somma
di tutte le meraviglie
è uno sfacelo senza fine né forma,
che la sua corruzione è troppo incancrenita
perché il nostro scettro possa mettervi riparo,
che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi
della loro lunga rovina”.

                                              (Italo Calvino, Le città invisibili

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