domenica 27 novembre 2016

L'ORA DI GRAMMATICA

E poi c'è l'ora di grammatica. L'ora in cui le parole si scompongono e le frasi diventano analisi e ragione. Il periodo non è solo sintassi della frase semplice o complessa, e le proposizioni diventano gioco e inventiva, fino a trovare il meccanismo giusto, la chiave di lettura di un processo logico e mentale. E così c'è l'ora di grammatica, l'ora delle parole che per un pò perdono il loro significato e diventano logica e pensiero, l'ora delle parole che smettono di significare se stesse per alludere ad altre valenze, l'ora delle parole che si razionalizzano e si definiscono, facili e precise, come non mai.
Fare l'analisi grammaticale, logica o del periodo è rassicurante, perchè ti dá l'idea di capirci qualcosa, tu prendi una frase, un enunciato, e lo scomponi nelle sue parti costitutive, lo razionalizzi e lo comprendi, e ti sembra di conoscerlo, di controllarlo, di identificarlo, di inserirlo in un'impalcatura generale che dá senso al tutto, e non ci sono dubbi, e non ci sono incertezze.
E infatti, quando devo fare grammatica in classe, ogni volta è una continua scoperta.
E non solo perchè i ragazzi non vedono l'utilitá -e sbuffano e si lamentano- di una cosa all'apparenza inutile, ma perché in ogni frase c'è un piccolo mondo da evidenziare e da scoprire.
E allora la lavagna si copre di suoni, e le forme diventano immagini, e le parti variabili e invariabili tante facce di un vocabolario infinito... "impalcature" mentali da organizzare ed inserire in categorie logiche e di pensiero, oggettive e comprensibili, sicure e controllabili.
Non come le parole delle emozioni, o il linguaggio del cuore degli uomini.
Mi è capitato, per spiegare i verbi alla lavagna, di dover cancellare un "ti amo" di un'alunna lasciato sul nero del piano nel bianco puro del gesso. Ed è stata una sensazione strana, un misto di tenerezza e di dolcezza, perchè in quella frase lì di regole e di grammatica non c'era proprio niente, eppure dentro c'erano tutti i sogni di un'adolescente, pieni di vita e di amore e di gioia nelle giravolte e curve del maiuscolo della scrittura.
Ed io che avrei dovuto spiegare i predicati e i verbi, io che avrei dovuto "intrappolare" la forma e "mettere in gabbia" complementi e apposizioni, lì con il cancellino in mano pronta a spazzar via le illusioni di una tredicenne, ho provato quasi un moto di antipatia per queste categorizzazioni oggettive che tolgono colore alle emozioni, e che sono un pó il male di oggi.
Lì avrei voluto prendere quelle giravolte e farle librare, togliere i lucchetti e dare spazio alle parole, perchè le emozioni non hanno confini e sono un volo e una danza, non si chiudono in forme e ti sfiorano l'anima, che è come danzare in silenzio e in punta di piedi.
E come un'adolescente avrei anch'io voluto disegnare un cuore e lasciare lì parole d'amore, avrei fatto il tratto con cura e l'avrei diviso a metá...
Ne avrei scelto una parte, e con Biagio avrei aggiunto "...Sappi amore mio che se avanza un pezzo di sto cuore è cuore tuo..." E ancora adesso forse ne colorerei di bianco una parte e lascerei l'altra pronta a ricevere il resto, un nome o un tutto, e le poesie più belle del mondo, e le parole che si sussurrano e che non sono abbastanza.
Ma non sono un'adolescente, e per di più sono la prof, - e le gabbie al cuore non servono mai, e i sogni ad occhi aperti non durano troppo- e si torna alle categorie grammaticali, e si sottolineano i verbi, che domani c'è il compito.

venerdì 25 novembre 2016

BLACK FRIDAY

E c'è ancora uno slogan per un marketing di successo.
È finito il "fuori tutto", passata la "summer fashion week", fuori moda il "3×2", e il "terzo capo lo paghi un euro" o "scontato ti costa la metá". Ora è tempo di "Black Friday", sigla di importazione americana per designare il periodo di saldi pre-natalizi che anticipa la corsa agli acquisti che precede la festa più speciale dell'anno.
Il mercato promette, si tinge di nero e sconta se stesso, ed è giá ossessione o presunta etichetta, giá tormentone e vera e propria fissazione, giá siamo bombardati da inviti assillanti che non lasciano nulla.
E noi che abbiamo sempre bisogno di qualcosa, noi che abbiamo gli armadi pieni e scarpe e borse per ogni occasione, aspettiamo lo slogan perfetto con attenta trepidazione.
Ne abbiamo bisogno, ci servono parole belle, sigle e definizioni, ci danno fiducia, ci identifichiamo con esse perché definiscono le nostre aree di influenza, indirizzano le nostre identitá, ci buttano sotto gli occhi aspettative e possibilitá.
Eppure quest'ansia alla parola sdoganata, alla parola pubblicizzata e internazionalizzata, non è forse un triste (anche se allettante) tentativo di coprire un "vuoto"?
Non è forse una scelta di mercato che nel dirci cosa è "trendy", ci vuole in realtá incapaci di vivere le nostre individualitá senza omologarci ed asservirci ad una necessitá economica priva di significato?
E questo nostra ricerca di tutto, non è forse un "bisogno" interiore che vuole colmare? Un tentativo di riempire un "vuoto", alimentato da una societá che non sa, non vuole e non ha valori da comunicare....
Eppure fare shopping è bello, diciamocelo, a volte anche divertente.
È catartico, coinvolgente, migliora l'umore e toglie anche lo stress.
(Ma solo se la taglia dei pantaloni è rimasta quella di sempre, e la commessa per facilitarti le cose non ti propone un reggiseno imbottito, senza sapere che quello che indossi è giá imbottito). È rassicurante, perchè ti fa sentire in grado di controllare le cose, fare parte di un mondo piú grande di te, dove le vetrine che illuminano le strade sono la faccia del benessere e della modernitá, e le insegne colorate un continuo sfavillìo di possibilitá, fascinose sì, ma che tuttavia non danno calore.
Così il "Black Friday" è il giorno degli acquisti folli, il giorno in cui tutto costa poco e niente ha un prezzo.
Non hanno prezzo i vestiti, gli elettrodomestici, perfino i sentimenti sembrano pesare di meno.
Fatto sta che oggi, venerdi di fine novembre- "black friday", è giá sera, è tutto scuro e piove.
E forse è proprio questo il vero volto del black friday, del "venerdì nero" in una sera di novembre, in una sera in cui l'autunno s'increspa in malinconia e ricordo, mentre i Guns n' Roses cantano amori stretti forte e tenuti per sè, amori che si perdono in una pioggia fredda e che magari pure si rivelano, "perchè nemmeno la fredda pioggia di novembre dura per sempre".

mercoledì 23 novembre 2016

UN PAESE CI VUOLE

"Un paese ci vuole, non fosse anche per il gusto di andarsene via", scriveva Cesare Pavese. Un paese ci vuole; non fosse anche per il gusto di avere l'esempio, sentire il momento, e prenderlo...Sentire la lentezza delle cose, sentire il tempo o la noia, le imperfezioni e le piccolezze, che poi forse tanto piccole non sono.
Un paese ci vuole sì, per andare e per tornare. Per respirare il bianco e il nero, e poi ad un tratto svoltato l'angolo trovare i colori. Fermarsi dentro un raggio di sole, e sentirne il chiarore sulla pelle, la lentezza delle piccole cose, che continuano e non fanno rumore.
Ci vuole, sì, un paese, per perdersi e ritrovarsi, per vedere la tranquillitá della quotidianitá, nella cantilena lenta che accompagna le strade e i passi sulla pelle, lì dove tutto attorno è tepore, ed ovunque un racconto che parla a metá.
E i paesi parlano, a modo loro. Hanno quell'incanto delle cose vissute e perdute, delle cose latenti che languiscono in un lento abbandono, che imprimono un profumo indelebile come di semplice ingenuitá, nei panni stesi ad asciugare al sole che sanno di calma e pazienza. E un sentimento ha giá l'odore del sapone di marsiglia, e un'emozione è quella del ragù sotto casa, e la senti nelle strade, la respiri per caso, lì dove i vecchietti fanno a gara ad ingannare la sorte, lì su una panchina assorti a rubacchiare la luce e ad allontanare la notte. E li trovi lì, con i loro racconti nutriti di chissá cosa, nei loro dialetti lontani e ti vien da sorridere, perchè intanto il mondo va ma lì ce n'è uno tutto loro, un mondo di colori ormai pallidi, fatto d'insegne sbiadite e rumori perduti. Rumori di bicchieri e gettoni, di bar di paese con il marchio lunik e di mokambo, di bar dove bevi solo il caffè, e di barbieri davanti la porta, e giradischi, e schiume e lamette.
E non è solo un'immagine della fantasia o della mente, perchè il tizio con la lambretta che passa c'è e ti fischietta lo stesso, magari ti strombetta pure con un galateo tutto suo, e tu ti lusinghi e ti vergogni, arrossisci e guardi avanti, e pure sbirci alla fine e trovi i colori. Sbirci dentro un mondo al vinile, fatto di ronzii di campagna e sapore di Vermouth, di brillantine oleose e donne e grembiuli e biscotti, e ti senti bene, perchè quella purezza l'hai sempre cercata, perchè quella lentezza è pienezza di sè, è la vita che ascolta e che vede, è la vita che va e non sa, all'infuori di quello che è. Mi piacciono i paesi persi nei colori d'autunno, quando gli attraversi e oltrepassi e ti trovi tra greggi, quando guidi e ti becchi le buche e fai a pezzi la frizione, quando vedi campi e pastori, e attrezzi agricoli che non si allontanano mai. 
E il bello è che in questo sapore d'antico e di lento finire, in questo scenario di disincantata purezza, in questo pezzo di mondo strappato al futuro, dopo curve, alberi, campi, fossi e frane, lì dopo le colline e le strade, e questa quiete dimenticata per caso, lì a un certo punto ... c'è il mare.

domenica 20 novembre 2016

UN ASTUCCIO A COLORI

Tornare tra i banchi di scuola è bello, è bello perchè ti scopri ancora una ragazzina, pur sedendo dall'altra parte della cattedra.
È bello perchè realizzi tante cose..vedi il tempo che passa davanti a te cristallizzato nell'attimo puro e perfetto di sguardi annoiati eppure pieni di vita, e quasi ti viene da ridere, pensando a quello che prima eri tu, su quegli stessi banchi e dietro quelle stesse pagine, sui quegli stessi libri che hanno accompagnato il tuo tempo e la tua vita, lasciando in ognuno un pezzettino di te, trovando in ognuno una parte di te.
È bello perchè c'è il presente, il passato e il futuro lì di fronte a far da cornice, c'è una parte della tua vita riletta in quella di altri, e tu ti riscopri a "crescere"con un salto nel tempo, bello perchè ha tutto il sapore delle cose pulite e, per questo, preziose.
Ma, oltre ai libri, alla lavagna sporca di gesso e al cancellino tradizionale, c'è una cosa che mi affascina più di quei quaderni colorati e da riempire...e sono quegli astucci pieni di meraviglie che rendono lo studente di oggi fornito e all'ultima moda.
Astucci multi-tasking, sono pieni di tutto.
Ci puoi trovare gomme, temperini, righelli, matite, penne profumate e dall'inchiostro intercambiabile, bianchini, penne cancellabili, colori.
Ecco, io quando vedo quegli astucci così pieni e organizzati, provo un moto di nostalgia...
perchè è bello racchiudere un mondo dentro un astuccio, è confortevole, ti fa sentire al sicuro, come avere con sè quegli strumenti in mano per controllare le cose, per essere al sicuro, al riparo da sè e dal resto.
Puoi essere pronto a tutto con un astuccio così.
Non come noi adulti, che magari buttiamo una penna in borsa senza farci caso -e stiamo ore a cercarla -e poi questa viene fuori tra un'agenda e un rossetto dopo aver messo tutta la borsa sottosopra.
Non come noi che abbiamo perso la magia delle "cose che servono", che abbiamo disimparato a prepararci alle cose forse perchè la vita è un caso, e il suo imprevedibile disordine ci ha insegnato la confusione della normalitá, l'abitudine alle necessitá e alle infinite casualitá che ci lasciano impreparati (o forse troppo pronti) da buttare una penna in borsa per poi cercarla ore.
 Beh io guardo quegli astucci e sogno ad occhi aperti.
 Sogno una realtá da controllare con gli strumenti giusti, una realtá a cui vai incontro preparato, che non ti lasci insomma con il cuore sottosopra e l'emozione a fare le capriole. Basterebbe un righello per tracciare le linee giuste, un goniometro per dare alle circonferenze le degne equidistanze, un colore (meglio pastello) per incantare le sfumature, ed immergerle in orizzonti misteriosi e pieni di poesia.
 Lascerei il bianco sui fogli perchè così profumerebbero di promesse e di giorni a venire, eviterei il rosso perchè saprebbe di rimprovero ed errore, anzi no, ne lascerei una parte, come passione e sensazione, che è amare la vita e sbagliare, diventare grandi e cambiare, baciare e sognare, ma sempre con il magico candore di pagine candide e nuove da riempire.
E poi ci sono le forbici e la colla...quelle per tagliare e poi mettere a posto le cose, per ricucire ferite e cancellare gli errori, per ricominciare da capo ed rincollare le parti.
C'è tutto un mondo nell'astuccio di uno studente.
Un mondo di ricordi, per noi, e di aspettative forse sbagliate, di promesse non mantenute e fantasie dimenticate;
un mondo di sicurezze e di scelte perfette, per loro, di percorsi lineari e misurabili, senza segreti, e tutti dritti in avanti, come una lunga retta o una lunga giornata di sole.
Un mondo di magia, per entrambi, per accarezzare, in un'ora di lezione, vecchie pagine e lontane istantanee, scoprire novitá ed incantare realtá, per una volta ancora di nuovo con te.

venerdì 18 novembre 2016

E CONSUMIAMO IL NIENTE

Quanta solitudine c'è in un mondo che non sa più tenersi per mano.
Che ha paura di guardarsi negli occhi, che ha paura di pensarsi indietro,
e avanti che non è mai abbastanza.
Un mondo che ha imparato cosa significa evolvere.
 Che ha scoperto come diventare grande, come abbracciare l'universo, e quelle stelle piccole lassù che sono fuoco e sostanza. Le stelle che magari bruciano in una notte e che sul tavolo da lavoro sono astronomie sconosciute, astrologie fantasiose da leggere su una mano, e strade del sogno e d'invenzione nelle notti di luna e fantasia.
 Un mondo che ha imparato a leggere le pietre, che ha capito come accendere un lampione, un mondo che sa come dare forma alle strade, come trasformare i contorni, modellare confini, e unire distanze e alteritá.
Un mondo che sa come andare avanti, ma che non sa come guardarsi indietro.
Indietro quando il tempo era tempo e bastava per essere vivi, quando non c'erano ingorghi e l'anima viveva di te, e non era solo una voce da soffocare e da riempire.
Quando non si buttava niente, e le emozioni non bruciavano la notte, ma la accendevano, e le esperienze erano attimi intensi di una piccola immensitá, e formavano quello che eri, e sancivano quello che sei.
 Quando un quaderno nuovo tra le mani erano pagine bianche da riempire, e la seta antica un corredo e un'emozione, una carezza di un'unica volta sulla pelle che sapeva di attese e felicitá.
 Quando non si consumavano i ricordi, e le case erano piene di tutto, e gli oggetti rotti ed aggiustati avevano tanto da raccontare, ed erano un pò una famiglia.
Non si consumavano le storie, i pensieri e le parole, non si consumavano le attese, e tutto aveva senso e valore.
 Si era vivi, o forse solo autentici, eppure tutto d'allora sapeva di inaspettata normalitá, e i brividi erano brividi, e gli sguardi erano occhi e trepidanti nella notte, e le paure erano sincere e reali.
Oggi invece stringiamo tra le mani il niente.
Consumiamo tutto e non ci resta niente.
Non il tempo per sentire, non il silenzio per capire, non il rumore per ascoltare.
Condividiamo tutto ma non sappiamo nulla di certo.
Sfioriamo visi, tocchiamo emozioni, ma senza accarezzarle davvero, custodiamo ricordi, ma senza possederli davvero, ci piace un po' tutto, ma forse no, perchè in realtà non c'è un punto d'incontro che sia esplosione e emozione.
Che sia creare costellazioni, come con l'amore, che sia una pioggia improvvisa e fresca, che sia come disegnare le voci, o dipingere il mare con l'acqua del mare.
Oggi digitiamo il nostro presente, e scorriamo tra le mani il nostro futuro. E consumiamo tutto.
Batteria, giga, wifi, connessioni e sorrisi.
Tempo, emozioni e confessioni non dette, e parole attese mai sperate.


lunedì 7 novembre 2016

IL TEMPO DELLE MELE, 7 NOVEMBRE 1981

Le scritte sull'invicta sanno di scarpe da ginnastica troppo logore e di calzoncini al ginocchio o lasciati a metá. Sanno di pomeriggi sporchi di polvere, di soli limpidi nella luce strana dell'imbrunire, di vetri e finestre su cui si riflettono giochi di giorni che muoiono.
Le facce sulle figurine sono quelle di protagonisti di film e serie tv. Sanno di movenze plastiche e di sbarbatelli in posa da attore, di baci da sogno e pantaloni a vita alta, e top colorati che lasciano fuori ombelichi invidiabili e fianchi ben modellati.
Le luci della sfera stroboscopica sono quelle delle musiche che hanno fatto la storia. Quelle delle canzoni da collezione, quelle di una stretta ed una parola, quella di un giradischi e di un microfono, di cuffie grandi e da mettere al volo, e walkman fosforescenti da "rinchiudere" in una musicassetta e portare con te, su un lato b troppo lento e un lato a che è come "un ininterrotto e per sempre".
 E poi c'erano i diari da riempire, le scritte a colori o in grassetto, i ritagli di giornale incollati in pezzi strappati, e le fotografie troppo lontane e sviluppate da poco.
C'erano gli indirizzi a penna ed i numeri di telefono, i compiti per i casa e i cuori senza nome e belli così, e tutto era speciale perchè sapeva di "infanzia", di felicitá, di luce magica di tramonto sul muro della casa di fronte, sul tetto all'angolo di chissá quale indirizzo.
C'era il tempo delle mele, ognuno con il suo e sempre diverso, quello dei lenti o delle carezze, o delle corse a crepapelle inseguendo il vento.
Un tempo delle mele che è una realtá vista e vissuta in un sogno, un tempo delle mele che è un diventare grandi ed un correre verso qualcosa, magari con un sole intravisto nei vetri delle case, caldo e rosso e pieno di vita, nella luce magica di un tramonto...di un giorno che muore.
 

giovedì 3 novembre 2016

CHE IL DESERTO CONSOLA

La basilica di San Benedetto, l'ermo colle di Leopardi, Roma e la sua Conciliazione.
Ogni evento (che sia tragico o drammatico, positivo, naturale o causale) ha come simbolo un'immagine precisa, un'immagine sulla quale ricadono "emblematicamente" gli aspetti più evidenti di tale contingente e che pertanto assurge ad ipostasi di una determinata situazione.
 Il bacio simbolo della fine della Seconda Guerra Mondiale, la bambina che corre nuda per la Guerra del Vietnam, la bambola per terra per l'attentato di Nizza di quest'estate, e si potrebbe continuare. Ogni "fatto" (in senso storico) è caratterizzato da tante realtá, ed ogni simbolo non è che l'emblema di una situazione più complessa.
 L'Italia del terremoto è l'Italia ferita nella sua identitá, umana, storica, culturale.
Viene da piangere a pensare a quanto della nostra identitá si sta sbriciolando sotto i nostri occhi. Un'intera basilica (tra l'altro fondata da un monaco che con la sua regola è stato un modello di rinascita religiosa e civile) con il suo odore di incenso e di arti dette preghiere, un colle che dagli occhi avidi di un poeta è diventato per tutti noi qualcosa di più, "l'immenso" che ci ha fatto sognare; per non parlare di paesi che non esistono più, di geografie cambiate per sempre, di strade vicoletti e negozi morti sotto la polvere, e vite da ricostruire private di un proprio baricentro ontologico di riferimento.
Sentire tremare la terra sotto i piedi fa paura, è destabilizzante, angosciante, ti toglie certezze e stabilitá, ti ricorda nel modo peggiore la nostra fragilitá.
Penso a quelle persone che hanno perso tutto, che devono ricominciare, che affrontano situazioni difficili e che stanno soffrendo con una dignitá ed una forza umana senza pari.
 Penso alla "ginestra" di Leopardi ed a quella natura indifferente al bene dell'uomo, lontana e a volte matrigna, che "non s'avvede di quello che fa", come si diceva un tempo ad un Islandese. Penso a quel fiore che di fronte alle "magnifiche sorti e progressive / dell'umanitá" è capace di abbassare la testa con dignitá, tuttavia mantenendo la sua fragilitá con vera grandezza.
A quel fiore che è come questa gente, a quel profumo che manda, che nobilita una terra ferita, soltanto per la tenacia e la semplicitá con cui resiste, e vi resta attaccato.

Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola.
                                       (La Ginestra, I)

mercoledì 2 novembre 2016

PIÙ DEL MONDO

La cosa piu bella del mondo? il sole
Il gesto più dolce del mondo? l'abbraccio
Le parole piu belle del mondo? il bacio
Il legame più forte? la mamma
Il profumo piu buono? l'infanzia
La garanzia di felicitá? una sorella
Il sogno più importante? te stesso
La carezza più attesa? un padre
Il rumore più vivo? il mare
la poesia più gentile? un respiro
Il sogno più ambito? un sospiro
Il posto più prezioso? il tuo cuore
La lacrima più sperata? un amore
L'emozione più calda? io e te
La promessa più vera? noi insieme
Il "noi" più forte? Per sempre