giovedì 26 gennaio 2017

ULISSE AD AUSCHWITZ - Primo Levi, Dante e il canto della memoria


Quando si pensa ad Auschwitz, vengono sempre in mente immagini in bianco e nero d'una staticitá disarmante. Un immobilismo che lascia sgomenti, quasi come se il grigiore di un orrore consumato nel vuoto fosse l'immagine sbiadita di una realtá appena intuita, troppo terribile per essere possibile soltanto immaginarla. 
Eppure a vederla oggi, questa Auschwitz silenziosa e accarezzata dal vento,
questa Auschwitz muta e tetra dal cancello d'ingresso in ferro alto con la scritta "il lavoro rende liberi", questa Auschwitz profonda, falsamente innocua, immane, terribile, 
sembra non recare traccia alcuna della drammatica indicibilità di cui si è resa storicamente protagonista.
Non sembra, qui dove si sente solo il rumore freddo del vento e dove il filo spinato circonda 
un' austeritá mista a dolore, di sentire il peso delle ombre vestite a strisce che camminano, che lavorano, che s'ammucchiano senza sosta, che si dispongono in fila, che si stringono l'una all'altra, che si stringono al niente.
Non sembra possibile la loro pelle con un numero tatuato, la loro pelle fredda come il silenzio indelebile dei loro occhi, il silenzio frammisto a nulla e a torpore, quello che ti sbiadisce dentro senza sosta, quello che ti porta via una parte di te, che ti svuota dall'interno, in un annichilimento che è un morire dentro, a poco a poco, per sempre.
In questa Auschwitz da pellicola muta,
non sembra quasi possibile un silenzio rotto solo da grida sconosciute, grida straniere, parole urlate che ordinano, che deridono, che umiliano, che uccidono.
Non sembra di vedere il fumo lento e silenzioso, il fumo grigio che lentamente va. E tutto è statico, è tutto atavico, come un immagine sprofondata dalla notte dei tempi. Troppo fredda e vuota, troppo silenziosa, e sterile, e senza vita.


Il bianco e nero di Auschwitz è il grigiore tetro negli occhi di chi non può dimenticare, di chi non può parlare, di chi non può più ascoltare. 
È il grigiore di corpi vuoti che camminano, "morti di una morte più profonda di cui non sono consapevoli per la troppa stanchezza". È il grigiore della storia, di una delle pagine più terribili di cui si abbia memoria e testimonianza, il grigiore che ci impone di non dimenticare, di non mettere a tacere sotto strati di indifferenza o noncuranza una realtá che non deve mai più ripetersi.
In questa realtá dove il grigio del nulla si mischia al nero della morte, in questa realtá dove l'identitá e la dignitá vengono annullate in un soffio di gas o una nuvola di fumo e ridotte ad un numero, ad un mero simulacro di ricordi spezzati e dolore, in una pagina come tante della storia e della lingua, 

arriva Dante, o meglio, l'Inferno dantesco diventa un modello di riferimento ed un punto di passaggio obbligato.
Cosa mai c'entra Dante, padre della lingua e autore principale della nostra letteratura, poeta trecentesco e uomo medievale fiorentino dalla cultura pressocchè enciclopedica, con la realtà degli internati?
Cosa c'entra Dante con Auschwitz? 


Stando a quanto sostiene Lionello Sozzi, Dante è diventato per la letteratura mondiale "il poeta dell'umanitá dolorante", e questo non soltanto per l'interpretazione che egli dà nella Commedia dei mali e dei tormenti del mondo, ma anche e soprattutto per gli scritti ed le opere dei sopravvisuti ai campi di sterminio: i quali, grazie al poeta autore dell'Inferno, una volta riemersi, riescono a superare il limite dell'incomunicabile, riescono  ad andare oltre "l'indicibilitá della loro esperienza".
Tra questi vi è appunto Primo Levi, chimico torinese di origine ebrea, deportato nel campo di sterminio polacco nel 1944 e autore del libro-testimonianza "Se questo è un uomo". 
Anche Levi, grazie a Dante riesce a superare la drammatica afasia dei sopravvissuti, e a porsi degli interrogativi, fino ad arrivare a dire, - in quella che prima che di testimonianza vuole essere opera di ammonimento e di personale interpretazione su quanto accaduto,  che "Dante, proprio Dante, l'ha salvato". 
Se come sostiene Elie Wiesel per i sopravvissuti "tacere è proibito ma parlare è impossibile",  l'autore della Commedia diventa per Primo Levi una figura centrale, nell'opera di costruzione della memoria (come testimone dei fatti narrati), ed ancor più nell'opera di de-costruzione di un'alteritá imposta da altri, un'alteritá voluta dal Lager, come de-privazione di una identitá-dignitá e,  laddove non foriera di morte fisica, totalmente disumanizzante.
Le analogie tra l'Inferno dantesco e quello "vero", effettivo, del Lager sottendono una interdisciplinarietá che si esplica in una rete di rimandi e di reciproche influenze. E l'opera leviana è nettamente intrisa di queste corrispondenze, l'Inferno dantesco è sempre presente come modello, o alter ego della narrazione. Non è il caso in questa sede di parlare delle analogie che vi sono tra le due opere, quello che conta è sottolineare come il tema della memoria, della giustizia su cui Levi si interroga, della incomunicabilitá delle lingue e soprattutto della disumanizzazione del dolore si intersechino nelle due opere in una complementarietá che in "Se questo è uomo", assume una facies tutta particolare.
In quella che Levi definisce la realtá dei "sommersi", i sommersi sprofondati verso il basso, nel loro inferno fatto da 45 cerchi concentrazionari, sempre più lontani dal mondo dei vivi,  che si trovano appunto in alto, "lassù dove il dolce mondo splende"( cfr. Ciacco, nell'Inferno, il "dolce mondo" dei vivi appunto), in questa realtá dove la scritta "il lavoro rende liberi" richiama il "lasciate ogni speranza o voi che entrate" quale anticamera del dolore e della morte, il tema della memoria acquista una importanza fondamentale. 
E qui arriva il canto di Ulisse.


"Infin che'l mar fu sovra noi richiuso" (v.142)

Nel 26esimo canto dell'Inferno, Dante, accompagnato da Virgilio, incontra la figura di Ulisse. Siamo nell'ottava bolgia, dove i consiglieri fraudolenti, rei di aver usato in vita la loro intelligenza per fare del male, vengono puniti racchiusi in una fiamma. Tra questi, in una fiamma a due punte, ci sono Ulisse e Diomede, due eroi greci macchiatisi per Dante di più colpe ( l'inganno del cavallo di Troia che ha permesso ai Greci di sconfiggere i Troiani, i consigli fallaci che hanno provocato la morte di Achille e il dolore di Deidamia, il furto della statua di Pallade Atena a protezione di Troia, presagio della fine della città).
Ulisse, la cui conoscenza giungeva a Dante non in originale greco ma mediante la mediazione della letteratura latina, era lo "scelerumque inventor Ulixes" dell'Eneide, colpevole di "Hybris", di "tracotanza", colpevole di aver voluto, nella sua enorme sete di conoscenza, superare il limite posto da Dio, oltrepassare le Colonne d'Ercole, andare oltre un divieto - nec plus ultra - posto all'uomo da Dio, limite geografico e limite dell'umana conoscenza.


Un giorno come tanti, nel Lager, a Levi vengono in mente, dopo tanto tempo, proprio i versi danteschi su Ulisse. Lo scrittore ne parla in un capitolo del libro intitolato appunto "Il canto di Ulisse".  Il tema della memoria s'incontra in questo capitolo con la figura forse più squisita della classicitá, in un connubio esemplificativo che diventa salvezza e rivelazione. Levi ci racconta che, assieme ad un ragazzo alsaziano che per la sua giovane etá all'interno del Kommando è chiamato "Pikolo", a loro due era stato assegnato il compito faticoso di portare "la razione" agli altri del Lager, compito che permetteva loro per un'ora-"una buona ora" ci dice l'autore, di camminare all'aria aperta e di sottrarsi cosí alla monotonia e angosciosa depravazione del campo. Durante una di queste camminate, a Levi, a cui il giovane aveva chiesto di insegnargli qualche parola in italiano, viene in mente proprio il canto di Ulisse dell'Inferno, ma si accorge con stupore, mentre ne recita una parte, di non ricordarlo del tutto.
E allora capisce:
capisce che in una realtá disumanizzante ricordare è il presupposto indispensabile della dignità e della identitá, capisce che la memoria, quella memoria che i nazisti stanno cercando di cancellare più volte, in ogni modo, è il patrimonio di ognuno da difendere e preservare, perchè un "popolo senza memoria è un popolo senza futuro", ed un uomo senza memoria è un uomo senza se stesso, un'ombra, un simulacro vuoto senza dignitá ed identitá.
E allora capisce davvero, allora la celebre terzina dantesca diventa messaggio di salvezza, scritto lì per lui, che come Ulisse, non vuole arrendersi alla disumanizzazione del Lager:


"Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
(vv.118-120)


Nella Divina Commedia la giustizia è quella di Dio. Dante scende verso il basso, arriva a toccare il fondo della miseria umana, ma alla fine per lui c'è la salita verso l'alto, c'è la salvezza, la salvezza divina che è redenzione. Le pene delle anime dell'Inferno e di quelle del Purgatorio sono quelle dettate da una giustizia superiore, rapportate al male che le ha prodotte.
Levi (come altri internati sopravvissuti) s'interrogherá sempre sul tema della giustizia, sul posto di Dio nelle brutture del Lager, ma non troverà mai una risposta. Il senso di colpa, questo sì, per essere sopravvissuto, colpevole indirettamente dell'uccisione di altri, il disgusto, questo pure, "perchè i sopravvissuti non erano certo i migliori."Non lo erano per merito, nè per qualitá umane e morali". La certezza, soprattutto, una volta riemerso al mondo dei vivi, di non salvarsi mai più, di non tornare mai più "un uomo dritto e sano".
L'incomunicabilità di Auschwitz è la babele linguistica di dantesca memoria. È l'assenza di ricordi, privazione di dignitá, di identità, di vita ed è la confusione straniera delle lingue, di uomini di ogni paese e nazionalitá, trapiantati tra i morti, tra gli invisibili che parlano (anzi non parlano più) lingue diverse.
L'indicibilitá dell'orrore non permette di sapere, di capire davvero. I veri testimoni, per Levi, non possono raccontare più, perchè quelli che sanno,   quelli morti davvero, non sono i sopravvissuti, morti anche loro, ma vivi per testimoniare a metá.
Così il canto di Ulisse diventa un messaggio di qualcosa di più: 


"A me la cultura è stata utile [...] mi ha servito e forse mi ha salvato" visto che "per vivere occorre una identitá, ossia una dignitá [...] e chi perde l'una perde anche l'altra, muore spiritualmente".
[...]
"Io avevo fatto l'universitá, ma la mia vera universitá è stata Auschwitz."
Se Levi è dunque un po' il Dante della nostra epoca, testimone del male e voce di redenzione ("meditate che questo è stato") l'augurio è che questa nostra umanitá sia in grado di salire e risalire sempre più verso la cima, perchè la vera dignitá di ognuno è vivere in armonia con se stesso e con gli altri. 

Perchè simili orrori non possano più ripetersi.
27 gennaio. Giornata della memoria.

sabato 21 gennaio 2017

HOTEL RIGOPIANO

La natura è "scientifica".
Ha le sue leggi e non guarda in faccia nessuno, non tiene conto di niente,  di quello che sei o quello che provi, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, di ciò che sarebbe auspicabile o meno.
Non tiene conto dei sentimenti della gente, del rumore dei loro pensieri, dei battiti del loro cuore, di quanta vita hanno investito in qualcosa di più, di quanto abbiano imparato a vivere o a morire. Non sa cosa si nasconde in un sogno, in un obiettivo, in una stretta di mano, in un rimpianto, in un bisogno, in un nuovo giorno.
Ha le sue leggi, e queste sono  "scientifiche", più forti di un insieme di desideri e di sogni portati come segni su un volto che invecchia, non sa o non vuole o non può fare altrimenti, e tutto é silenzio, "nell'infinita vanitá del tutto". Citare Leopardi, il Leopardi delle "Operette morali", del "Dialogo della Natura e  di un Islandese", il Leopardi della "natura matrigna", della natura indifferente, muta e silenziosa di fronte al dolore dell'uomo, sembra un passo obbligato di fronte alla "scientificitá" di una realtá naturale che si rivolta contro, come raccontano i tristi eventi di questi ultimi giorni.
Che ci insegnano, o ricordano, che davvero siamo piccoli e fragili su questa terra, una terra che abbiamo imparato a "controllare", a monitorare, a modificare a nostro vantaggio, ma che ogni volta si rivela quella che è, e dire che ce la portiamo sotto i piedi, in una frazione di cielo e fantasia, con tutta la sua forza "viva", e potente, ogni istante.
Ma c'è un'altra forza, che va oltre, che sa dare tanto, nella sua minuta grandezza.
La natura è "scientifica", non guarda in faccia nessuno, ha le sue leggi, un insieme di cause e conseguenze, "fisiche"appunto.
Non ci sono sentimenti, nè etica, nè giustizia, nè moralitá.
Ma tutto il resto è "umanitá".
L'uomo è "umanità". L'uomo con i suoi pensieri nella testa ed il suo cuore di battiti e sogni.
L'uomo che aiuta e salva.
E questa è l'umanitá più bella,
questa la vera grandezza...
Grazie a tutti i soccorritori, i veri eroi, che ci insegnano a crederci ancora!

martedì 17 gennaio 2017

IN TRENO

E poi ti ritrovi in treno con il mascara che ti macchia la faccia, e una musica nelle orecchie a farti compagnia.
Una musica che passa veloce, così come questo treno che attraversa posti sconosciuti e cittá,
sul finestrino dove le gocce di pioggia
lasciano veloci la loro scia,
dove il mare non fa rumore, ed è tutto un turbinio di emozioni,
il mare d'inverno con la sua confusione.
È bello il mare d'inverno con le sue onde indelebili che si spingono oltre e non si fermano mai,
il mare bello e tormentato,
il mare dei pensieri, il mare un po' poesia,
quello che ti rapisce e fa paura.
Il mare della locanda Almayer,
che è un po' ovunque e appartiene un po' a tutti,
in una galleria di tipi umani fatti di sogni e di forza, di idee alla rinfusa e lacrime e cuore, 
speranze e progetti,
e storie impresse nella pelle, nascoste negli sguardi di ognuno, che ognuno porta con sè.
C'è una locanda Almayer ovunque, oltre un treno che corre veloce lungo un mare d'inverno, e dentro ognuno di noi, con le nostre idee alla rinfusa che si rispecchiano sul finestrino, i nostri sogni sospesi a metá, nel batticuore d'una emozione, al ritmo d'una canzone intonata per disincanto o respiro.
E tu leggi Dante e guardi il mare,
leggi le rime e cerchi il cielo, 
e giá lungo la riva pare di vedere
un pittore che dipinge il mare con il mare,
giá pare un pittore e la sua tela,
bianca come le emozioni che non si possono descrivere, che sono piene di tutto, e non conoscono il nulla.
E tu sfogli il libro e ascolti i Muse,
scrivi e subito è giá buio,
e l'imbrunire si porta via il mare
e la musica va e attraversa la strada,
mentre le luci si accendono nelle case lontane
e le ore spengono stanze sconosciute,
case di altri, vite di altre vite.
Fuori
la sera è uno sfumato di blu.
Gli alberi sono ombre di pittori macchiaioli.
Ovunque è un chiaroscuro di pensieri e piccole eternitá.
Io vorrei avere i pennelli,
per dare forma ad un acquerello di sensazioni,
per tracciare le linee e sentirmi al sicuro.
Ma, come un pittore d'altri tempi,
lascio al bianco le sfumature,
al bianco i contorni.
Accarezzo un pensiero,
mentre ascolto, su una musica che parla d'estate,
i battiti intensi di una poesia intesa a metá.

venerdì 13 gennaio 2017

LE COSE CHE SI PERDONO

Le cose che mi fanno paura sono i giorni che si portano via i giorni.
I giorni che portano via i giochi da bambini,
e le canzoni stonate cantando.
Mi fanno paura i giorni che si portano via le risate,
e le corse in riva sulla spiaggia,
quando su quel lungomare ogni anno ci cresci,
e la tua ombra si allunga sempre più,
e tutto passa e non fa rumore.
Mi fanno paura i giorni che cancellano gli abbracci,
e i tramonti che accendono tutto di rosso,
per poi perdersi in un lampo.
I ricordi che restano solo per me,
che gli altri non sentono e lasciano andare,
i momenti che vorrei non svanissero mai,
e gli attimi veloci che non riesco ad afferrare.
Mi fanno paura le parole dette
che in breve si perdono chissá dove,
quelle come una carezza di vento,
che vorrei immortalare e tenere per me,
tepore gentile lasciato sul volto
che subito passano via e non so perchè.
Mi fanno paura le cose che finiscono,
quelle che svaniscono,
che si perdono,
che ci prendono,
che ci incantano,
che ci cambiano,
che si prendono una parte di noi,
e poi volano via.
Le cose che tieni strette dentro di te,
e che lì non passano mai,
che lasciano un sorriso,
quando smetti di piangere,
o di chiederti "perchè".

UNA PAGINA DI CRONACA


Le notti in discoteca per "sballarsi", i cocktail colorati e dai nomi che fanno "tendenza", e poi le ragazze, i soldi per il motorino, il casco da sostituire con quello nuovo e all'ultima moda, le partite alla playstation.
Sembrerebbe il mondo di un diciassettenne qualunque, fatto di compiti lasciati in bianco e pagelle piene di brutti voti, se non fosse che è in questo mondo che affiora ed ha origine una storia che proprio in questi giorni dalle pagine di cronaca ci ha colpito profondamente.
Ancora una storia di sangue, verrebbe da dire, ancora una storia drammatica.
Mi riferisco a quella dei due genitori del Ravennate uccisi e trovati morti nella loro abitazione a colpi d'ascia. Uccisi dal figlio e da un suo amico, poi si saprà, a cui il giovane (sì perchè di un giovane di soli diciassette anni si tratta) aveva promesso la cifra di mille euro per ricompensarlo dell'aiuto prestato.
Una storia che fa riflettere, e che fa venire i brividi.
Due genitori uccisi in casa propria, nel loro letto, tra le cose di sempre di una quotidianità costruita giorno per giorno, uccisi da quello stesso figlio a cui avevano dato la vita.
Mi chiedo cosa spinga un giovane, figlio di una società del benessere qual è la nostra, a compiere un gesto tanto grave, cosa ci sia (o meglio cosa non ci sia) da spingerlo fino a questo.
I continui rimproveri per un andamento scolastico negativo?
Le reiterate disapprovazioni dei suoi comportamenti e la mancata accettazione del suo stile di vita?
Cosa c'è di tanto grave nel modus operandi dei genitori da generare, avallare o determinare una simile azione?
Cosa c’è che non funziona, quale mancanza, quale “vuoto” ha da colmare una realtà avvertita come “minacciosa”, come “limitante”, una realtà in cui dovrebbe definirsi una identità in “essere”, che cerca attorno a sé dei modelli e non li trova?
A pensarci, non c'è neanche un termine preciso per indicare tale tipo di omicidio.
Si parla di “femminicidio”, “patricidio”, “matricidio”, “parricidio”, ma non c'è un termine unico (almeno credo) per indicare "uccisione dei genitori".
Nella letteratura greca Edipo uccide il padre senza sapere di farlo, e Cesare è ucciso da Bruto in quel che è passato alla storia come "Cesaricidio", secondo la tradizione, a causa di motivi politici e sociali.
Neanche la letteratura è riuscita a concepire un orizzonte ontologico di riferimento nel quale "autorizzare", “giustificare”, o “sancire” nei confini angusti della comprensione umana e del diritto, un gesto che va contro ogni etica ed ogni comprensione o significato.  
E così Edipo è diventato metafora dell'uomo solo e sofferente, l’eroe infelice che per sfuggire al proprio destino finisce inconsapevolmente per andargli incontro, egli è colpevole senza saperlo, senza volerlo, egli è colui che pensa di essere “uno”, e si ritrova ad essere “un altro”, lui così saggio, così sapiente, da non saper vedere ciò che era sotto i suoi stessi occhi. Come Cesare, quelle lontane idi di marzo del 44 a.C., di fronte ai tirannicidi ed a Bruto fra tutti, lui così forte, così potente, che non può non compiere un ultimo gesto di pietá, di dolore e di amore, quello di un padre, (magari in aggiunta storiografica seriore), che per non vedere il figlio armato si copre la faccia con la toga rossa, e pronuncia le ultime parole (vere o meno) “kai su téknon”… in latino ”quoque tu fili mi”- anche tu figlio mio, che esprimono tutta la tragicità del gesto, la “drammaticità” di un padre colpito a morte.
Mi chiedo cosa spinga un giovane di diciassette anni, in una famiglia come ce ne sono tante, in un mondo pieno di possibilità, a fare quello che ha fatto.
Quali valori stiamo dando ai nostri figli, quali valori stiamo lasciando ai nostri giovani?
Quale mondo stiamo costruendo, in una società piena di tutto, una società del progresso, del benessere, una società civile?
Forse è il momento non solo di condannare, ma di riflettere, non di condannare senza capire, ma di cercare di capire, di vedere oltre quella realtà che stiamo costruendo ed in cui spesso, purtroppo, non ci riconosciamo. Interrogarci, e fermarci un po’ tutti a pensare…

“È il momento disperato in cui si scopre
che questo impero che ci era sembrato la somma
di tutte le meraviglie
è uno sfacelo senza fine né forma,
che la sua corruzione è troppo incancrenita
perché il nostro scettro possa mettervi riparo,
che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi
della loro lunga rovina”.

                                              (Italo Calvino, Le città invisibili

martedì 10 gennaio 2017

DIECI GIORNI DI 2017

Caro duemiladiciasette,
ti dico la veritá, non mi piace per niente come sei iniziato.
Innanzitutto
devo aver messo più chili in questi giorni di neve, che non nell'intero 2016.
Tutta questa neve mi ha stancato,
non se ne può più,
e dire che sono fortunata a stare in casa,
al riparo e al calduccio,
senza i disagi e i reali gravi problemi
avvertiti dai più,
che sono storie che fanno riflettere, e fanno soffrire.
Mi mancano i miei alunni e i miei colleghi,
mi manca persino il gessetto della lavagna con il prurito sulle mani e che mi sporca le scarpe,
il mare con il suo profumo di libertá,
e il sole,
il sole che rende tutto più bello.
Mi mancano tante cose del 2016,
la mia etá senza dieci giorni,
quando non si sapevano tante veritá
e si stava bene così.
Mi mancano anche i saldi,
ma ormai sará finito tutto,
brutto duemiladiciassette sfigato!

lunedì 9 gennaio 2017

PALCOSCENICO

Cosa c'è davvero quando si spengono le luci?
Cosa resta davvero, di quello che si è visto al centro di un palco, dietro i riflettori e gli scatti dei flash che rimandano luce?
Dove finisce la realtá e comincia la finzione, e quanto è sottile il confine dell'uno o dell'altra?
Mi chiedo cosa abbagli veramente in un mondo che ha bisogno di miti...
Un mondo che ha bisogno di veritá, di perfezione, di credere in qualcosa di più, nell'eccezione, nell'emozione delle mille possibilitá che diventano icone.
Un mondo che cerca, trova ed elegge i suoi miti,  leggende che diventano voci, capelli e sudore e mani che diventano idoli, e salti nella notte, e voci che s'imprimono nella pelle, e si fanno generazione.
Cosa c'è davvero dietro i nastrini colorati e i riverberi d'una luce accecante?
Cosa resta dell'uomo e dell'artista, e dove finisce l'uno e comincia l'altro?
Mi chiedo cosa abbagli davvero in una vita in cui un ruolo diventa più forte del proprio stesso essere.
Cosa sia vivere su un limite, sapendo di calzare l'eccesso e vivere il peso enorme di essere un uomo, quella solitudine inappagata e inautentica di un'identitá sempre mediata dal "mito", nascosta dietro l'ombra di un sogno, di un nome, di un effimero istante...
Io non so dove sia veramente la felicità, e se ci siano uomini che possano dirsi davvero felici.
Quello che so è che la felicitá vera non è nei successi nè tantomeno nelle eccezionalitá che si chiamano "mito". Non è negli eccessi e negli sfavillii. Forse può esserlo per un po', ma sono luci fredde che accecano, e non portano a nulla.
Forse la felicitá è scoprire la propria dimensione di uomo nelle piccole cose. È fare il proprio dovere e sbagliare e riprovare con impegno ed umiltá, è rimanere se stessi e amare la propria vita, è accettarla per quella che è, con tutte le lacrime, i problemi, le delusioni o le difficoltá.
È stringere una mano e sentirne il calore, è pensare ad un amore e sentirsi al sicuro, è scrivere due righe, e sentirsi leggero. È sperare in un giorno migliore, sperare sempre, imparare a farlo, il più delle volte, e non mollare mai.
Io non so cosa c'è dietro un mondo che brilla e che dentro resta in silenzio, un mondo pieno di luci e di immagini, immagini costruite, cucite addosso, miti che provano ad essere "miti", e che non sanno più come essere uomini.
Forse c'è quello di cui abbiamo bisogno un po'tutti,
ma sotto i riflettori, dove si dá spazio alla fama, e si deformano i contorni...

giovedì 5 gennaio 2017

CARA BEFANA...LETTERA

Cara Befana,
con il cappello, la scopa e lo scialle di lana,
ti scrivo perchè
dopo aver scritto a Babbo Natale,
ora tocca a te.
Si dice che tutte le feste porti via,
allora perchè non fermare l'istante,
cercando di far durare il più possibile
questa magia?
Cara Befana,
io le cose più preziose le stringo dentro, le stringo forte,
le tengo per me,
ma vorrei chiederti comunque qualcosa:
ti chiedo di portar via questo brutto tempo
e questa neve che ancora non c'è, ma sta per arrivare.
Ti chiedo di portare cioccolato ai bimbi buoni,
ed emozioni migliori a tutti,
amori e sensazioni.
Ti chiedo di fermare questo mondo
che ci vuole soli e impauriti,
che vuole privarci di noi,
e ovunque di far battere i cuori,
di portare sentimenti veri,
con giochi e poesie,
fiori e canzoni.
Ti chiedo
lacrime belle e sorrisi
per i bambini là fuori,
e quelli rimasti un po' dentro
ognuno di noi,
negli adulti cresciuti che pure cambiano ma non crescono mai.
E per me..
di questi giorni ti chiedo
bilance non del tutto sincere,
e saldi che durino il doppio!
Ti chiedo di poter trovare la taglia
di quello che voglio
e cose belle in negozio.
Ti chiedo maglie che mi stiano a pennello
(senza proposta
di reggiseno imbottito),
per affrontare l'inverno,
ti chiedo scarpe grandi e sicure
per camminare veloce
ed occhiali da sole
limpidi e puri
per sembrare più forte,
e magari nascondermi dietro
a cercare l'estate
a trovare i pensieri.
Ti chiedo di riportare il tempo indietro,
alle calze da scartare e a quelle da svuotare,
ai tempi della scuola
quando stava per ricominciare...
A quando era tutto bello e facile,
a quando era felicitá
a quando non lo si sapeva
ed andava bene così.

martedì 3 gennaio 2017

INVERNO

Inverno se ti fermassi sulle porte di casa o sui vetri alla finestra, 
forse non faresti tanto male, forse saresti pure bello, piacevole, 
come lo sono quelle sospensioni di vita irreali che restan sospese
e non portano a nulla.
E invece tu sei così,
sei il rumore dei pensieri quando l'ombra che ci portiamo dentro s'allunga dietro di te e si chiama malinconia, sei l'attesa interminabile di una voce o una presenza, sei la stanchezza logora di aspettative, desideri e pianti che infiammano e non si avverano mai. 
Sei ingiusto inverno,
e sai essere inclemente alle volte, per i sogni lasciati dietro le porte,
e il calore sospeso divenuto gelo e freddezza.
Sei ingiusto, nei pomeriggi interminabili che s'accorciano 
e sono giá notte, e svaniscono così, e si portano via i giorni di sempre,
e si portano via un pò di noi, e si consumano, 
portando via chissá cosa, lasciando via i chissà e i perchè.
Inverno, se potessi imbrigliare tutta questa pioggia che mi sfiora i sogni e indispone i pensieri, e strappar via tutto questo grigiore che è
inedia e tormento,
vorrei che tu divenissi un messaggero di sereno candore.
Vorrei che tu fossi la mano stretta tra le mani
a cercar calore,
e il profumo di una primavera lontana, ma pronta a venire, in un raggio di sole.
Vorrei che fossi i racconti di un tempo perduto,
la fantasia in un cielo di nuvole,
le fotografie in bianco e nero che significano per davvero, ed hanno valore.
Vorrei che fossi la quiete del cuore e dell'anima,
l'abbraccio caldo delle cose che sono,
la certezza di un sentimento che è,
esiste, e dura tutt'ora.

domenica 1 gennaio 2017

BUON 2017

Io che odio la parola "fine",
scelgo la parola "inizio".
A me che la parola "inizio"
suona troppo ambiziosa, 
o forse misteriosa,
e un po'fa paura,
attiene la parola "continuo".
Continuo per la certezza degli affetti più veri,
quelli di sempre, che ci sono e riempiono tutto.
Continuo per essere sempre se stessi,
oltre se stessi e la vita.
Continuo per noi,
che continuiamo a credere e amare.
Se poi un inizio ci sará, che sia un avverarsi di un sogno, una speranza ed una promessa, un raggio di luce pieno di affetto.
Wishing all your dreams come true...
BUON 2017!!!