Quando si pensa ad Auschwitz, vengono sempre in mente immagini in bianco e nero d'una staticitá disarmante. Un immobilismo che lascia sgomenti, quasi come se il grigiore di un orrore consumato nel vuoto fosse l'immagine sbiadita di una realtá appena intuita, troppo terribile per essere possibile soltanto immaginarla.
Eppure a vederla oggi, questa Auschwitz silenziosa e accarezzata dal vento,
questa Auschwitz muta e tetra dal cancello d'ingresso in ferro alto con la scritta "il lavoro rende liberi", questa Auschwitz profonda, falsamente innocua, immane, terribile,
sembra non recare traccia alcuna della drammatica indicibilità di cui si è resa storicamente protagonista.
Non sembra, qui dove si sente solo il rumore freddo del vento e dove il filo spinato circonda
un' austeritá mista a dolore, di sentire il peso delle ombre vestite a strisce che camminano, che lavorano, che s'ammucchiano senza sosta, che si dispongono in fila, che si stringono l'una all'altra, che si stringono al niente.
Non sembra possibile la loro pelle con un numero tatuato, la loro pelle fredda come il silenzio indelebile dei loro occhi, il silenzio frammisto a nulla e a torpore, quello che ti sbiadisce dentro senza sosta, quello che ti porta via una parte di te, che ti svuota dall'interno, in un annichilimento che è un morire dentro, a poco a poco, per sempre.
In questa Auschwitz da pellicola muta,
non sembra quasi possibile un silenzio rotto solo da grida sconosciute, grida straniere, parole urlate che ordinano, che deridono, che umiliano, che uccidono.
Non sembra di vedere il fumo lento e silenzioso, il fumo grigio che lentamente va. E tutto è statico, è tutto atavico, come un immagine sprofondata dalla notte dei tempi. Troppo fredda e vuota, troppo silenziosa, e sterile, e senza vita.
È il grigiore di corpi vuoti che camminano, "morti di una morte più profonda di cui non sono consapevoli per la troppa stanchezza". È il grigiore della storia, di una delle pagine più terribili di cui si abbia memoria e testimonianza, il grigiore che ci impone di non dimenticare, di non mettere a tacere sotto strati di indifferenza o noncuranza una realtá che non deve mai più ripetersi.
In questa realtá dove il grigio del nulla si mischia al nero della morte, in questa realtá dove l'identitá e la dignitá vengono annullate in un soffio di gas o una nuvola di fumo e ridotte ad un numero, ad un mero simulacro di ricordi spezzati e dolore, in una pagina come tante della storia e della lingua,
arriva Dante, o meglio, l'Inferno dantesco diventa un modello di riferimento ed un punto di passaggio obbligato.
Cosa mai c'entra Dante, padre della lingua e autore principale della nostra letteratura, poeta trecentesco e uomo medievale fiorentino dalla cultura pressocchè enciclopedica, con la realtà degli internati?
Cosa c'entra Dante con Auschwitz?
Stando a quanto sostiene Lionello Sozzi, Dante è diventato per la letteratura mondiale "il poeta dell'umanitá dolorante", e questo non soltanto per l'interpretazione che egli dà nella Commedia dei mali e dei tormenti del mondo, ma anche e soprattutto per gli scritti ed le opere dei sopravvisuti ai campi di sterminio: i quali, grazie al poeta autore dell'Inferno, una volta riemersi, riescono a superare il limite dell'incomunicabile, riescono ad andare oltre "l'indicibilitá della loro esperienza".
Tra questi vi è appunto Primo Levi, chimico torinese di origine ebrea, deportato nel campo di sterminio polacco nel 1944 e autore del libro-testimonianza "Se questo è un uomo".
Anche Levi, grazie a Dante riesce a superare la drammatica afasia dei sopravvissuti, e a porsi degli interrogativi, fino ad arrivare a dire, - in quella che prima che di testimonianza vuole essere opera di ammonimento e di personale interpretazione su quanto accaduto, che "Dante, proprio Dante, l'ha salvato".
Se come sostiene Elie Wiesel per i sopravvissuti "tacere è proibito ma parlare è impossibile", l'autore della Commedia diventa per Primo Levi una figura centrale, nell'opera di costruzione della memoria (come testimone dei fatti narrati), ed ancor più nell'opera di de-costruzione di un'alteritá imposta da altri, un'alteritá voluta dal Lager, come de-privazione di una identitá-dignitá e, laddove non foriera di morte fisica, totalmente disumanizzante.
Le analogie tra l'Inferno dantesco e quello "vero", effettivo, del Lager sottendono una interdisciplinarietá che si esplica in una rete di rimandi e di reciproche influenze. E l'opera leviana è nettamente intrisa di queste corrispondenze, l'Inferno dantesco è sempre presente come modello, o alter ego della narrazione. Non è il caso in questa sede di parlare delle analogie che vi sono tra le due opere, quello che conta è sottolineare come il tema della memoria, della giustizia su cui Levi si interroga, della incomunicabilitá delle lingue e soprattutto della disumanizzazione del dolore si intersechino nelle due opere in una complementarietá che in "Se questo è uomo", assume una facies tutta particolare.
In quella che Levi definisce la realtá dei "sommersi", i sommersi sprofondati verso il basso, nel loro inferno fatto da 45 cerchi concentrazionari, sempre più lontani dal mondo dei vivi, che si trovano appunto in alto, "lassù dove il dolce mondo splende"( cfr. Ciacco, nell'Inferno, il "dolce mondo" dei vivi appunto), in questa realtá dove la scritta "il lavoro rende liberi" richiama il "lasciate ogni speranza o voi che entrate" quale anticamera del dolore e della morte, il tema della memoria acquista una importanza fondamentale.
E qui arriva il canto di Ulisse.
Ulisse, la cui conoscenza giungeva a Dante non in originale greco ma mediante la mediazione della letteratura latina, era lo "scelerumque inventor Ulixes" dell'Eneide, colpevole di "Hybris", di "tracotanza", colpevole di aver voluto, nella sua enorme sete di conoscenza, superare il limite posto da Dio, oltrepassare le Colonne d'Ercole, andare oltre un divieto - nec plus ultra - posto all'uomo da Dio, limite geografico e limite dell'umana conoscenza.
E allora capisce:
capisce che in una realtá disumanizzante ricordare è il presupposto indispensabile della dignità e della identitá, capisce che la memoria, quella memoria che i nazisti stanno cercando di cancellare più volte, in ogni modo, è il patrimonio di ognuno da difendere e preservare, perchè un "popolo senza memoria è un popolo senza futuro", ed un uomo senza memoria è un uomo senza se stesso, un'ombra, un simulacro vuoto senza dignitá ed identitá.
E allora capisce davvero, allora la celebre terzina dantesca diventa messaggio di salvezza, scritto lì per lui, che come Ulisse, non vuole arrendersi alla disumanizzazione del Lager:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
(vv.118-120)
Levi (come altri internati sopravvissuti) s'interrogherá sempre sul tema della giustizia, sul posto di Dio nelle brutture del Lager, ma non troverà mai una risposta. Il senso di colpa, questo sì, per essere sopravvissuto, colpevole indirettamente dell'uccisione di altri, il disgusto, questo pure, "perchè i sopravvissuti non erano certo i migliori."Non lo erano per merito, nè per qualitá umane e morali". La certezza, soprattutto, una volta riemerso al mondo dei vivi, di non salvarsi mai più, di non tornare mai più "un uomo dritto e sano".
L'incomunicabilità di Auschwitz è la babele linguistica di dantesca memoria. È l'assenza di ricordi, privazione di dignitá, di identità, di vita ed è la confusione straniera delle lingue, di uomini di ogni paese e nazionalitá, trapiantati tra i morti, tra gli invisibili che parlano (anzi non parlano più) lingue diverse.
L'indicibilitá dell'orrore non permette di sapere, di capire davvero. I veri testimoni, per Levi, non possono raccontare più, perchè quelli che sanno, quelli morti davvero, non sono i sopravvissuti, morti anche loro, ma vivi per testimoniare a metá.
Così il canto di Ulisse diventa un messaggio di qualcosa di più:
[...]
"Io avevo fatto l'universitá, ma la mia vera universitá è stata Auschwitz."
Perchè simili orrori non possano più ripetersi.