mercoledì 1 marzo 2017

GABRIELE D'ANNUNZIO, nell'anniversario della scomparsa

<<Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la morte, allora soltanto avró il viso che mi era stato destinato, immune dagli affanni, dalle fatiche, dai patimenti, dagli innumerevoli eventi che forzò e forzerá pur in estremo il mio disperato coraggio>>, e solo allora- verrebbe da aggiungere- capirete chi è Gabriele D'Annunzio!
L'essenza di una vita sempre impersonata in un ruolo, di chi quel ruolo l'ha fatto esempio di vita inimitabile, orpello esteriore di una realtá mitizzata, ineguagliabile, irraggiungibile, 
all'insegna di una estetizzazione dell'arte come della vita che ha in sè tutta la complessa drammaticitá della modernitá...
Gabriele D'Annunzio di ruoli ne ha indossati molti...
Dal Vate al Superuomo, dal poeta della vita e dell'eterna giovinezza al panismo panico e esaltante, dal dandy all'esteta, dal politico all' "eroe-politico" militante (nell'impresa di Fiume), dall'amante passionale cantore dell'ebbrezza della vita, all'uomo solo e sofferente, preda della più triste e infinita malinconia, dell'ideale come assoluto valore di riferimento, e della sua irrealtá e irrealizzabilitá, concreta veritá dell'umana condizione.
Ma chi era davvero il poeta di origine pescarese, se non quello che rivelava il suo viso nel momento della morte? Chi era l'uomo e chi l'artista, e dove finiva l'uno e incominciava l'altro?
Si legge un'esigenza di autenticitá che solo nelle pagine finali di un artista polimorfo acquista di rilevanza, se si considera la sua opera come un tentativo di realizzare se stesso all'interno di una sublimazione dell'arte intesa come mezzo di "traduzione-superamento" di una realtá sentita come inadeguata ed inappagante.
E Gabriele D'Annunzio percorre tutte le possibilitá della sua scrittura, del suo estro dall'inesauribile forza vitale. Egli (il cui cognome vero era Rapagnetta) venuto dalla terra del suo Abruzzo a svecchiare una letteratura ormai logora nelle proprie tematiche e scelte stilistiche di carducciana memoria, è l'artista che dalle ampie pennellate delle poesie iniziali sceglie le finestre piccole del salotto romano e lì vi si sofferma, in un estetismo che accarezza temi nuovi e vecchi stilemi per dar vita alla "rappresentazione dell'uomo solo e sofferente", dell'uomo moderno, tutto chiuso nel suo ideale di perfezione, nella sua edonica drammaticità, l'uomo che perde se stesso, e che rinuncia alla vita, inseguendo le ombre della propria disperata "idealità". 
Egli è l'artista polimorfo della cura formale e del viaggio in Grecia, della musicalitá delle forme e del ripiegamento francescano su se stesso, del superuomo e del wagnerismo senza posa, della poesia come alcyonica presenza verso un cielo terso di sogni e possibilitá.
Egli è l'artista che fa della vita un'opera d'arte, che rifugge da un'umanitá sentita come disgregante, e che tuttavia lo trafigge, perchè è uomo anche lui, perchè  la vita non è mai un "ideale",  perchè per vivere nell'ideale bisognerebbe rinunciare alla vita, e questo all'uomo non è possibile, a meno che non scelga di perdere se stesso, di annullarsi invece di confermarsi come unico valore di riferimento.
Così il diario del superuomo, del poeta cantore delle rime nobili e perfette dell'Isottèo, della verdeggiante armoniosità dell'Alcyone, è quello di un uomo che dietro la letteratura si nasconde e pur tuttavia si rivela.
Si rivela passo passo e si ritrova, lì <<dove ha un solo volto la malinconia>> e dove la casa-museo allestita come un'opera d'arte finisce per divenire scrigno e rifugio di un'anima sola che della vita ha provato tutto, il triste <<rumore del nulla>>, e la gioia di una poesia che è amore per la vita e per l'arte.

Giova, o amico, ne l'anima profonda 
meditare le dubbie sorti umane,
piangere il tempo, ed oscurar di vane
 melancolìe la dea Terra feconda?
[...]
Bevere giova con aperta gola
ai ruscelli de'l canto, e coglier rose,
e mordere ciascun soave frutto.

O Poeta, divina è la Parola;
ne la pura Bellezza il ciel ripose
ogni nostra letizia; e il Verso è tutto. 

             (Isottèo, Epodo, IV, vv.1-4, 9-14)



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